(di Matteo Ievolella) La recente crisi del “Covid – 19” ci ha posto dinnanzi ad immani sofferenze e ad agli sforzi necessari per alleviarle.

Il presente ci appare d’un tratto come una terra straniera e nuovi interrogativi serpeggiano tra le classi dirigenti, o presunte tali, dei paesi occidentali: come affrontare ciò che verrà dopo?

La crisi sanitaria presto o tardi passerà, o quantomeno si affievolirà, ma le sue conseguenze economiche potrebbero contribuire a ridisegnare il profilo del sistema capitalista occidentale.

Se la crisi del 2008 ha rappresentato l’apice ed il crollo del neoliberismo, cosa potrà dirsi delle tendenze che si sono affermate dopo quella data? Soprattutto, cosa attendersi per il “paziente Italia”?

Per decenni ci è stato detto che il sistema economico italiano anteriore agli anni ’90 non era compatibile con l’economia di mercato e non era capace di generare altro se non perdite.

Eppure, la storia ci sta nuovamente ponendo d’innanzi alla vexata quaestio che, almeno dalla Teoria Generale di G.M. Keynes, caratterizza le macro-decisioni economiche: quale ruolo affidare allo Stato nella vita economica di un paese?

La recente crisi infatti mette in evidenza la sostanziale incapacità del capitalismo privato di sostenere autonomamente i costi legati al blocco delle attività produttive; ma mostra anche l’intrinseca fragilità del tessuto economico italiano e non solo.

Rimanendo concentrati sul caso italiano, non può non balzare agli occhi come solo un rinnovato ruolo dello Stato nell’economia possa garantire l’adeguata solidità strutturale ad un percorso di crescita. Ma procediamo con ordine.

Lo Stato italiano oggi non è assente dal panorama economico, anzi: tramite il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa Depositi e Prestiti gestisce un complesso sistema di partecipazioni in società strategiche, o comunque importanti, per il “sistema Italia”. Tale complesso industriale si pone in sostanziale, seppur parziale, continuità con il pluri-vituperato Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), del quale non si può in questa sede affrontare la storia, ma del quale val la pena citare l’imponente risultato conseguito nel 1993 di settimo conglomerato industriale al mondo per fatturato (scusate se è poco). Il merito dell’IRI fu, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, quello di coordinare tutte le attività economiche necessarie alla ricostruzione del paese tramite una strutturata politica di investimento pubblico. Una formula, evidentemente, non completamente replicabile al giorno d’oggi. Ma non per questo un modello dal quale non trarre spunto.

In effetti, con una certa delicatezza, lo Stato, da dopo la sciagurata stagione delle privatizzazioni, inaugurata negli anni ’90, ha saputo tracciare un nuovo confine tra l’iniziativa pubblica e quella privata, creando una sorta di membrana osmotica tra le due proprio in quel “luogo economico” rappresentato dalla nuova partecipazione pubblica nell’economia, alla quale si è precedentemente fatto accenno.

Ed è principalmente a questo sistema che dobbiamo fare riferimento per costruire un progetto di crescita e rilancio.

Se infatti è riconosciuto ormai senza ombra di dubbio in tutto il sistema occidentale che il sostegno prima, ed il rilancio poi, della nostra economia deve essere principalmente sostenuto dalla mano pubblica, si deve allora cogliere l’occasione per farlo nel modo migliore e che assicuri la maggior tutela dell’interesse collettivo e del benessere dei cittadini, bilanciandoli con le esigenze di una sana economia di mercato.

Per tale ragione è opportuno sfruttare lo strumento dell’intervento dello Stato nell’economia per avviare un programma organico di investimento in quei settori che costituiscono il presupposto necessario per la crescita economica: le infrastrutture e la ricerca.

Nel primo caso, non è possibile parlare di crescita in un paese che nel 2020, salvo alcune eccezioni, continua a “fermarsi ad Eboli”. Si deve perciò varare un massiccio piano di investimenti in infrastrutture fisiche e digitali che consenta all’Italia di divenire una vera realtà integrata da Pachino a Vipiteno, valorizzando le strutture esistenti e sotto-sfruttate, senza creare nuove cattedrali nel deserto. Tali scelte devono necessariamente passare per la comprensione dell’importanza strategica della nostra posizione nel Mediterraneo, facendo del meridione un nuovo pivot commerciale per i rapporti con le crescenti economie orientali e soprattutto africane.

Nel secondo caso occorre stimolare le aziende ad investire massicciamente in ricerca e sviluppo, a partire proprio da quelle che operano nei settori strategici dell’energia, delle comunicazioni, dei trasporti ed anche, benché in pochi ne parlano, della difesa.

Il sistema della partecipazione pubblica, adeguatamente coniugato con la nuova normativa in materia di golden power, può assicurare l’organicità ed il coordinamento del quale queste iniziative hanno bisogno, garantendo la sostenibilità di lungo periodo degli investimenti.

L’orizzonte temporale del nostro agire deve perciò estendersi al di là della prossima elezione ed abbracciare il tanto decantato, ma poco perseguito, lungo periodo (nel caso di specie non meno di dieci anni). Qualunque forza politica che rifugga da questa prospettiva, o peggio ancora prometta risultati eccezionali nel breve periodo, non solo mente al cittadino, ma ne mette coscientemente a repentaglio l’avvenire.

Recuperare un modello del passato ed adattarlo al presente può rappresentare ad oggi per l’Italia la sola chance di successo, e per questo motivo occorre agire con l’audacia di chi, pur conscio dei propri limiti, non rinnega il proprio passato, va fiero delle proprie capacità, guarda con convinzione ad un futuro migliore.

 

 

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